martedì 26 gennaio 2016

LA PALESTRA


L’antefatto è di circa dieci mesi fa. I presidenti dei quartieri erano stati ascoltati dalla Commissione per lo Statuto ed i Regolamenti Comunali, per appurare se nella normale attività erano emersi aspetti da correggere riguardo al Regolamento dei Comitati.
La maggior parte delle osservazioni avanzate riguardava le cause di incompatibilità tra la carica di consigliere di quartiere e quella di candidato a elezioni amministrative o politiche. Se ci si candidava, per esempio a consigliere comunale, si decadeva automaticamente dalla carica di consigliere di quartiere. Indipendentemente dall’esito della successiva elezione amministrativa. Negli effetti pratici, questo aveva causato vistosi buchi negli organigrammi dei consigli di quartiere. Qualche quartiere aveva visto decadere la maggioranza dei componenti il proprio consiglio, e addirittura aveva troppo pochi non-eletti da poter rimpiazzare quelli decaduti. In punta di regolamento, quando in un consiglio di quartiere viene a mancare più della metà dei componenti inizialmente eletti, si deve procedere a nuove elezioni. Ma questo vorrebbe dire non avere un election day unico per tutti i nove quartieri albesi. Si sono trovate delle soluzioni tampone; ma ora, a bocce ferme, si intendeva rivedere il regolamento dei Comitati di Quartiere per ovviare a questi inconvenienti.

La incompatibilità, in astratto, ha una sua ragion d’essere: non si vuole che i candidati alle elezioni amministrative traggano vantaggio dalla propria posizione di consiglieri o presidenti di quartiere e dalla visibilità che gliene deriva. Anche se questa cosa in fondo è solo una ipotesi, non comprovata da dati oggettivi: in teoria, la riconoscibilità potrebbe anche essere uno svantaggio (“se lo conosci lo eviti”). Per lo stesso motivo si voleva avere un election day unico, posto esattamente a metà del mandato comunale, in modo da dare un’impressione di distanza anche temporale oltre che ideale tra politica e comitati.
  
Le posizioni che sono emerse in commissione variano seguendo molteplici sfumature. Si va sostanzialmente da un “lasciamo tutto così com’è, chi si candida è fuori” a un “chi vuole candidarsi lo fa, se poi viene eletto decade”. In mezzo tutta una serie di distinguo tra la sospensione della carica, le dimissioni con successivo reintegro per cooptazione, la incompatibilità per la carica di presidente ma non per quella di semplice consigliere, altre varianti più o meno sfumate di queste proposte.

Personalmente devo dire che sono favorevole ad una ipotesi molto semplice, senza retropensieri o bizantinismi. Per me chi si vuole candidare lo fa, se viene eletto decadrà automaticamente dalla carica precedente. Nella sua nuova carica potrà proseguire quella attività al servizio della collettività che aveva iniziato quando era consigliere di quartiere.

Capisco l’obiezione di chi dice “ci si può sempre dedicare alla collettività pur non essendo un consigliere di quartiere”. La ritengo idealmente la rappresentazione di come il mondo dovrebbe essere. Ma poiché nel mondo attuale ci vivo, e nei quartieri ci opero, so che la realtà è un po’ diversa: la partecipazione è spesso più “spintanea” che volontaria, più sollecitata che autoconvocata. Forse siamo noi presidenti che non sappiamo motivare i nostri consigli. In fondo non siamo degli animatori, e strapazzando un po’ il Manzoni, potrei dire che uno, se il carisma non ce l’ha, non se lo può dare. Ognuno di noi cerca di mettere tempo, attenzione e energie al servizio della realtà dei nostri quartieri. Ma ci prenderemmo in giro se non ammettessimo che con la poca voglia di partecipazione che si vede in giro è un peccato mortale tenere fuori dal gruppo delle persone che ci si sono impegnate disinteressatamente fino ad oggi. Anzi, che hanno dimostrato una volontà e generosità ancora maggiore candidandosi ad occuparsi di realtà ancora maggiori del quartiere, come l’ambito del proprio Comune.

Porto sempre il pensiero di un mio mentore a cui invariabilmente sento rispondere, a chi gli chiede il voto in occasione delle amministrative, la stessa cosa, da molti anni e a molti, diversi interlocutori: “non sei tu che ci devi chiedere per favore il nostro voto, siamo noi che dovremmo ringraziarti per il tempo, la passione e i sacrifici che stai accettando di mettere al servizio di tutti noi, candidandoti”.

Ci penso tutte le volte che sento mettere in dubbio la buona fede di chi si candida, quando sento ipotizzare un vantaggio elettorale derivante dalla supposta maggiore visibilità. Certo, può essere. Ma non è che dimettendosi due mesi prima si perde quell’ipotetico vantaggio della riconoscibilità; la gente se lo ricorda se per cinque anni si è fatto parte del Comitato di Quartiere (e meno male, se si viene ricordati vuole dire che quel tempo non è passato invano). Senza contare che questa esperienza, che in ogni caso arricchisce il proprio bagaglio personale, si può comunque segnalare nella pubblicistica elettorale; basterà fare attenzione ai tempi dei verbi, usando il passato (HO FATTO PARTE) invece del presente (FACCIO PARTE).

Concordo senz’altro con una tesi che ho sentito in commissione. L’ambito dei Comitati di Quartiere è come una palestra. Il confronto, il dibattito, l’analisi dei problemi e delle soluzioni, il rapporto con la gente e con le amministrazioni sono gli esercizi a cui dedichiamo il tempo, le energie e l’attenzione di cui disponiamo. Si impara a mettersi a disposizione della collettività, si instaura un rapporto di fiducia con la popolazione. Se poi questo bagaglio di esperienza e di conoscenza servirà in futuro, non penso sia una cosa scandalosa, da demonizzare.

Mi sembra una cosa normale.

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